lunedì 23 settembre 2013

Keep dreaming.



Molte volte i miei genitori mi han chiesto cosa avessi voluto fare da grande.
A 5 anni dicevo che volevo lavorare nel circo. Essere la ragazza che fa le acrobazie mentre cavalca. Questo perché i cavalli erano il mio animale preferito, aggiungiamoci poi gli anni passati a guardare zorro in televisione con il mio adorato nonno (ciao nonno), un pizzico di pazzia che già mi scorreva nelle vene e il piatto è pronto: l’idea di un futuro strambo che faceva sempre ridere i miei genitori, che mi assecondavano sempre, ma chissà come mai appena chiedevo loro di comprarmi un cavallo mi rispondevano con un banalissimo “non sappiamo dove metterlo tesoro”. A quell’età non potevo sapere che i cavalli non si tengono nei giardini delle proprie case, bensì nei maneggi, quindi mi son fatta bastare quella risposta, finché l’idea di lavorare nel circo non è stata abbandonata.
In quinta elementare, per la recita di fine anno, ci era stato chiesto di preparare uno spettacolino in cui interpretavamo il lavoro che avremmo voluto fare da grandi: io e una mia amica volevamo diventare delle scienziate; questo perché giocavamo sempre insieme al piccolo chimico e ci divertiva da matti fare ed inventare nuove pozioni.
Ad undici anni inizio a giocare a pallacanestro. All’inizio ero una vera e propria pippa, ma dopo qualche mese inizio già ad acquisire il fisico idoneo per praticare questo sport e a diventare abbastanza bravina, tanto da farmi convocare alle selezioni per partecipare ad un torneo provinciale. Passate le selezioni stavo già iniziando a convincermi di essere diventata abbastanza brava e di essere arrivata ad un passo dal vestire la maglia della nazionale. Era diventato il mio nuovo sogno, che andò in frantumi nel momento in cui mi ruppi la caviglia durante una partita del torneo. Io e le articolazioni non andiamo proprio d’accordo.
Comunque sia tutti si complimentavano con me per quanto fossi diventata brava in così poco tempo e mi dicevano che avrei anche potuto giocare in prima squadra.
E infatti non molto tempo dopo, in seconda media, arrivò la mia prima convocazione ad un allenamento con la squadra di serie B.
È stata una gioia per me: poter giocare con le ragazze più grandi era un onore ed ero talmente tanto contenta che facevo anche quattro ore di allenamento filato per poter stare con loro.
Ovviamente però, come in tutte le fiabe, c’è sempre il cattivo (o la cattiva) pronto a rubare la scena al protagonista: in questo caso si tratta di una mia compagna di squadra e di sua mamma.
A quanto pare era gelosa della mia convocazione e la strega in questione decise di andare a parlare con l’allenatore per permettere anche a sua figlia di allenarsi con la prima squadra.
Essendo una brava giocatrice l’allenatore non ha potuto dirle di no.
Ed ecco che inizia il declino.
Io non ero una ragazza espansiva, non lo sono tutt’ora, figuriamoci in mezzo a donne di 25-30 anni. Quindi mi limitavo a fare il mio allenamento in silenzio, scambiavo qualche parola quando venivo interpellata e niente di più.
Lei ovviamente si faceva notare da tutte e questa è stata la mia croce per tutto il tempo in cui abbiamo giocato insieme.
Io venivo messa sempre in secondo piano da lei, che faceva battute, che rispondeva all’allenatore.
Più volte mi son detta “prova fare anche te come fa lei”, ma tutte le volte che ci provavo, fallivo. Tutte le volte che provavo a rispondere all’allenatore quando mi provocava finivo sempre per abbassare la testa e ammirare le mie bellissime scarpe.
Lei dava confidenza a tutti e a tutte e questo mi faceva sempre arrabbiare perché lei ci riusciva e io no. Perché lei giocava le partite e io stavo in panchina.
Sono sempre arrivata seconda, tutti gli allenatori che ho avuto mi han detto “sei brava si, ma non hai quella marcia in più che ha lei”.
Quale sarebbe la marcia in più? La faccia tosta? La presunzione di dire “mettimi in campo! Se gioco possiamo vincere”?
Piuttosto che essere così preferisco stare in panchina per il resto della vita.
È sempre stata una gara con lei; è brutto da dire, ma è così.
Abbiamo scelto entrambe di fare lo scientifico: io indirizzo matematico, lei base.
Io dividevo le mie giornate tra compiti e allenamenti, mentre lei tra ragazzi e allenamenti. La invidiavo anche per questo: io non ho mai avuto un ragazzo, lei invece avrà perso il conto di quanti ne ha avuti.
Ed erano sempre tutti sugli spalti a fare il tifo per lei: ho scritto “per lei” perché esultavano solo per lei e non per la squadra.
Se vincevamo era solo merito suo. Se perdevamo invece, lei era quasi sempre esonerata dai discorsetti post partita dove l’allenatore criticava il modo di giocare di ognuna di noi, del tipo “certo che tu potevi evitare di passare la palla e provare a tirare una buona volta”. Per lei invece aveva sempre una parola di conforto, nonostante durante la partita anche lei avesse preso delle decisioni sbagliate.
Durante gli anni di liceo inizio ad appassionarmi al mondo della fisica e della medicina, leggevo un sacco di libri a riguardo: in particolare adoravo quelli sull’astrofisica, scritti da Stephen Hawking.
Un giorno durante allenamento mi scappa di bocca il fatto che volessi diventare medico; dalle mie spalle sento un “ma dai!! Anche io!!” chissà come mai me lo aspettavo.
Tutt’ora non riesco a capire se lo facesse apposta per farmi venire un diavolo per capello, oppure se avesse davvero interessi uguali ai miei.
Molto probabilmente lo faceva per farmi arrabbiare.
Alla fine lei non ha più nominato il fatto che volesse fare il medico e, al momento del test d’ingresso, mi dice di essersi iscritta ad economia (facoltà che abbandona dopo due mesi), che era quella l’università che voleva fare fin dall’inizio.
Comunque sia neanche io sono riuscita a realizzare il mio sogno perché il test non l’ho passato, per ben due anni di fila.
il secondo fallimento avrei potuto anche evitarlo, rinunciando in primis ad iscrivermi visto che era praticamente impossibile che lo passassi, tra esami di infermieristica e tirocinio in reparto, non mi restava molto tempo per studiare anche per quello.
Io ora mi ritrovo al terzo anno, lei invece commessa in un negozio: non critico le persone che scelgono di lavorare, anzi, critico solo lei che mi ha reso la vita un inferno, rubandomi tutti i sogni che avevo, finendo poi a lavorare in un negozio. Direi che questa volta ho vinto io.
Comunque sia ho capito che i miei sogni non sono destinati a realizzarsi, non importa quanto desideri qualcosa.
Ma non per questo smetterò di esprimere desideri, prima o poi qualcuno si dovrà per forza realizzare.
Questo post era iniziato come un “cosa voglio fare da grande”, è continuato con gli insulti alla mia simpaticissima compagna di squadra, e finisce con me che vi dico che non sono ancora pienamente sicura della strada che ho preso, non ho ancora trovato il mio posto in questo mondo, per quanto adori lavorare come infermiera e prendermi cura delle persone (soprattutto dei bambini).
L’unica cosa che posso dire con certezza è quella di continuare a sognare, anche se a volte ci chiediamo “cosa lo faccio a fare se poi non si avverano?”: nonostante tutto io ancora ci spero, che un giorno il mio telefono squilli e dall’altra parte della linea ci sia l’allenatore della nazionale che mi dice che mi vogliono in squadra.

Molte volte mi son detta “ho smesso di sognare”, ma non ne posso fare a meno, a quanto pare sono una sognatrice.
C.

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