Molte volte i miei genitori mi han chiesto cosa avessi
voluto fare da grande.
A 5 anni dicevo che volevo lavorare nel circo. Essere la
ragazza che fa le acrobazie mentre cavalca. Questo perché i cavalli erano il
mio animale preferito, aggiungiamoci poi gli anni passati a guardare zorro in
televisione con il mio adorato nonno (ciao nonno), un pizzico di pazzia che già
mi scorreva nelle vene e il piatto è pronto: l’idea di un futuro strambo che
faceva sempre ridere i miei genitori, che mi assecondavano sempre, ma chissà
come mai appena chiedevo loro di comprarmi un cavallo mi rispondevano con un
banalissimo “non sappiamo dove metterlo tesoro”. A quell’età non potevo sapere
che i cavalli non si tengono nei giardini delle proprie case, bensì nei
maneggi, quindi mi son fatta bastare quella risposta, finché l’idea di lavorare
nel circo non è stata abbandonata.
In quinta elementare, per la recita di fine anno, ci era
stato chiesto di preparare uno spettacolino in cui interpretavamo il lavoro che
avremmo voluto fare da grandi: io e una mia amica volevamo diventare delle
scienziate; questo perché giocavamo sempre insieme al piccolo chimico e ci
divertiva da matti fare ed inventare nuove pozioni.
Ad undici anni inizio a giocare a pallacanestro. All’inizio
ero una vera e propria pippa, ma dopo qualche mese inizio già ad acquisire il
fisico idoneo per praticare questo sport e a diventare abbastanza bravina,
tanto da farmi convocare alle selezioni per partecipare ad un torneo
provinciale. Passate le selezioni stavo già iniziando a convincermi di essere
diventata abbastanza brava e di essere arrivata ad un passo dal vestire la
maglia della nazionale. Era diventato il mio nuovo sogno, che andò in frantumi
nel momento in cui mi ruppi la caviglia durante una partita del torneo. Io e le
articolazioni non andiamo proprio d’accordo.
Comunque sia tutti si complimentavano con me per quanto
fossi diventata brava in così poco tempo e mi dicevano che avrei anche potuto
giocare in prima squadra.
E infatti non molto tempo dopo, in seconda media, arrivò la
mia prima convocazione ad un allenamento con la squadra di serie B.
È stata una gioia per me: poter giocare con le ragazze più
grandi era un onore ed ero talmente tanto contenta che facevo anche quattro ore
di allenamento filato per poter stare con loro.
Ovviamente però, come in tutte le fiabe, c’è sempre il
cattivo (o la cattiva) pronto a rubare la scena al protagonista: in questo caso
si tratta di una mia compagna di squadra e di sua mamma.
A quanto pare era gelosa della mia convocazione e la strega
in questione decise di andare a parlare con l’allenatore per permettere anche a
sua figlia di allenarsi con la prima squadra.
Essendo una brava giocatrice l’allenatore non ha potuto
dirle di no.
Ed ecco che inizia il declino.
Io non ero una ragazza espansiva, non lo sono tutt’ora,
figuriamoci in mezzo a donne di 25-30 anni. Quindi mi limitavo a fare il mio
allenamento in silenzio, scambiavo qualche parola quando venivo interpellata e
niente di più.
Lei ovviamente si faceva notare da tutte e questa è stata la
mia croce per tutto il tempo in cui abbiamo giocato insieme.
Io venivo messa sempre in secondo piano da lei, che faceva
battute, che rispondeva all’allenatore.
Più volte mi son detta “prova fare anche te come fa lei”, ma
tutte le volte che ci provavo, fallivo. Tutte le volte che provavo a rispondere
all’allenatore quando mi provocava finivo sempre per abbassare la testa e
ammirare le mie bellissime scarpe.
Lei dava confidenza a tutti e a tutte e questo mi faceva
sempre arrabbiare perché lei ci riusciva e io no. Perché lei giocava le partite
e io stavo in panchina.
Sono sempre arrivata seconda, tutti gli allenatori che ho
avuto mi han detto “sei brava si, ma non hai quella marcia in più che ha lei”.
Quale sarebbe la marcia in più? La faccia tosta? La
presunzione di dire “mettimi in campo! Se gioco possiamo vincere”?
Piuttosto che essere così preferisco stare in panchina per
il resto della vita.
È sempre stata una gara con lei; è brutto da dire, ma è
così.
Abbiamo scelto entrambe di fare lo scientifico: io indirizzo
matematico, lei base.
Io dividevo le mie giornate tra compiti e allenamenti,
mentre lei tra ragazzi e allenamenti. La invidiavo anche per questo: io non ho
mai avuto un ragazzo, lei invece avrà perso il conto di quanti ne ha avuti.
Ed erano sempre tutti sugli spalti a fare il tifo per lei:
ho scritto “per lei” perché esultavano solo per lei e non per la squadra.
Se vincevamo era solo merito suo. Se perdevamo invece, lei
era quasi sempre esonerata dai discorsetti post partita dove l’allenatore
criticava il modo di giocare di ognuna di noi, del tipo “certo che tu potevi
evitare di passare la palla e provare a tirare una buona volta”. Per lei invece
aveva sempre una parola di conforto, nonostante durante la partita anche lei
avesse preso delle decisioni sbagliate.
Durante gli anni di liceo inizio ad appassionarmi al mondo
della fisica e della medicina, leggevo un sacco di libri a riguardo: in
particolare adoravo quelli sull’astrofisica, scritti da Stephen Hawking.
Un giorno durante allenamento mi scappa di bocca il fatto
che volessi diventare medico; dalle mie spalle sento un “ma dai!! Anche io!!” chissà
come mai me lo aspettavo.
Tutt’ora non riesco a capire se lo facesse apposta per farmi
venire un diavolo per capello, oppure se avesse davvero interessi uguali ai
miei.
Molto probabilmente lo faceva per farmi arrabbiare.
Alla fine lei non ha più nominato il fatto che volesse fare
il medico e, al momento del test d’ingresso, mi dice di essersi iscritta ad
economia (facoltà che abbandona dopo due mesi), che era quella l’università che
voleva fare fin dall’inizio.
Comunque sia neanche io sono riuscita a realizzare il mio
sogno perché il test non l’ho passato, per ben due anni di fila.
il secondo fallimento avrei potuto anche evitarlo,
rinunciando in primis ad iscrivermi visto che era praticamente impossibile che
lo passassi, tra esami di infermieristica e tirocinio in reparto, non mi
restava molto tempo per studiare anche per quello.
Io ora mi ritrovo al terzo anno, lei invece commessa in un
negozio: non critico le persone che scelgono di lavorare, anzi, critico solo
lei che mi ha reso la vita un inferno, rubandomi tutti i sogni che avevo,
finendo poi a lavorare in un negozio. Direi che questa volta ho vinto io.
Comunque sia ho capito che i miei sogni non sono destinati a
realizzarsi, non importa quanto desideri qualcosa.
Ma non per questo smetterò di esprimere desideri, prima o
poi qualcuno si dovrà per forza realizzare.
Questo post era iniziato come un “cosa voglio fare da grande”,
è continuato con gli insulti alla mia simpaticissima compagna di squadra, e finisce
con me che vi dico che non sono ancora pienamente sicura della strada che ho
preso, non ho ancora trovato il mio posto in questo mondo, per quanto adori
lavorare come infermiera e prendermi cura delle persone (soprattutto dei
bambini).
L’unica cosa che posso dire con certezza è quella di
continuare a sognare, anche se a volte ci chiediamo “cosa lo faccio a fare se
poi non si avverano?”: nonostante tutto io ancora ci spero, che un giorno il
mio telefono squilli e dall’altra parte della linea ci sia l’allenatore della
nazionale che mi dice che mi vogliono in squadra.
Molte volte mi son detta “ho smesso di sognare”, ma non ne
posso fare a meno, a quanto pare sono una sognatrice.
C.
Nessun commento:
Posta un commento